Un appuntamento da non perdere, per coloro che amano il buon cinema  d’impegno e per noi del Cineclub “La dolcevita” è quello con  il “Guerre & Pace FilmFest”, di cui appreziamo e condividiamo le scelte in programma. Quest’anno il “Guerre & Pace FilmFest”  é alla sua ottava edizione.
In un pianeta ancora insanguinato da centinaia di piccole grandi guerre ci sembra giusto ricordare tutto l’orrore della violenza dell’uomo contro l’uomo e la forza che il cinema ha, crediamo meglio di qualsiasi altro mezzo di comunicazione, di sensibilizzare le coscienze e affermare, con il vigore delle immagini, che è giusto “ripudiare la guerra come mezzo di controversia dei conflitti”, come recita la nostra Costituzione. Mostrare la guerra per far desiderare la pace. Mostrare la guerra affinché le persone comprendano appieno tutta la carica di distruzione che porta con sé e capiscano, come ha scritto Stefania Bianchi, la direttrice artistica di questo festival, “che le guerre non hanno né vinti  né vincitori, ma solo vittime”.

E proprio il documentario di Giovanna Gagliardo “Vittime” (lunedì 19 luglio) ha il compito di inaugurare questa settimana di proiezioni. Realizzato su iniziativa dell’AIVITER (Associazione Italiana Vittime del Terrorismo) è stato ideato con l’obiettivo di ricostruire gli anni del terrorismo nel nostro Paese. Trent’anni della nostra storia raccontati in un percorso a ritroso che parte dal 2003 – nel giorno dell’uccisione dell’agente di Polizia ferroviaria Petri ad opera della brigatista Nadia Desdemona Lioce – e si conclude il 12 dicembre 1969 con la strage di Piazza Fontana a Milano. Con un’idea su tutte: restituire la memoria ai sopravvissuti, ai familiari e alle vittime del terrorismo. Tra il 1969 e la fine degli anni Ottanta – in quegli anni che furono definiti “anni di piombo” – ci furono in Italia ben 12.770 episodi di violenza terroristica, di attentati individuali e di stragi di varie dimensioni che hanno lasciato sul terreno 5.390 feriti e 342 morti, una media di 5 attentati al giorno. Una vera e propria guerra in tempo di pace, le cui vittime erano quasi sempre dei cittadini inermi, dei simboli in divisa, degli uomini che per via delle loro idee e del loro operato, venivano trasformati in bersagli.[slider title=”Espandi/Comprimi…”]

Si entra nel vivo dei conflitti con “Lebanon” (martedì 20 luglio), il film del regista israeliano Samuel Maoz che ha vinto il Leone d’oro all’ultima Mostra del cinema di Venezia. Le prime ore della guerra in Libano del giugno 1982 sono rievocate dall’angusta prospettiva del quartetto d’inesperte reclute intrappolate in un tank israeliano, al cui interno si svolge tutto il film. Un carro armato e un plotone di paracadutisti vengono inviati a perlustrare una cittadina ostile bombardata dall’aviazione israeliana. Ma i militari perdono il controllo della missione, che si trasforma in una trappola mortale. Il soldato di Maoz non ama la guerra: idealmente prossimo al Piero di De Andrè e al tenente Ottolenghi di “Uomini e no”, rifiuta in lacrime e indisciplinato di uccidere e di uccidersi.

Dopo il conflitto arabo- israeliano, un altro conflitto eterno: quello del popolo curdo in guerra contro i turchi, gli iracheni e gli iraniani. “Triage” (mercoledì 21 luglio)  del bosniaco Danis Tanovic (Oscar 2002 per «No Man’s Land») ha il merito di rievocare lo sterminio dei curdi perpetrato da Saddam Hussein. Protagonisti due fotoreporter di guerra, tra le figure più discusse di un conflitto, che non partecipano agli eventi ma rischiano loro malgrado di modificarli, perché non esistono osservatori che non influenzino l’evento osservato; sono testimoni ma in qualche modo anche complici. Il “triage” del titolo, un metodo in uso in tutte le stazioni di Pronto soccorso del mondo per determinare lo stato di urgenza di un paziente, qui è uno dei simboli della barbarie della guerra: il medico provvede personalmente (e pietosamente) ad eliminare gli incurabili con un colpo di pistola in testa.

Sceglie lo sguardo puro di una bambina di otto anni il regista Giorgio Diritti per raccontare ne “L’uomo che verrà” (giovedì 22 luglio)  la sua versione della strage di Marzabotto, l’eccidio di 770 civili perpetrato dalle truppe naziste tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944 ai danni degli abitanti di Monte Sole e dintorni, a pochi chilometri a sud di Bologna. La piccola Martina assiste con stupore a ciò che le accade intorno, acquistando via via una consapevolezza sempre maggiore di un mondo da sogno caduto in un incubo. In una guerra a rimetterci sono sempre i poveracci, ricorda il film, e per questo Diritti va a dipingere il conflitto dal punto di vista dei contadini e ci fa riflettere sulle assurdità delle guerre e delle violenze. Non tanto in nome di un pacifismo razionale ma per un’umanissima empatia con le vittime. A quegli uomini, quelle donne e quei bambini che vanno incontro alla morte ci siamo affezionati vedendo la loro grama vita quotidiana, sentendo l’odore di terra o di stalla e soffrendo la loro stessa povertà, ascoltando la durezza di una lingua che ha le stesse asprezze dei volti. Un neonato sarà “L’uomo che verrà” del titolo, il portatore di futuro che sarà giovane nel boom economico, vecchio nella crisi globale.

In un’epoca in cui gli eserciti non sono formati da militari di leva ma da volontari e gli uomini si lanciano di buon grado nell’azione militare, a volte la guerra può sedurre in maniera potente, fino a diventare vera e propria dipendenza, come una droga. “The Hurt Locker” (venerdì 23 luglio) è il ritratto intenso di un’unità speciale di soldati, la squadra “Bravo Company”, con il compito più pericoloso del mondo: disarmare bombe nel mezzo dell’azione. Siamo in Iraq, dove la guerra ha già un bilancio di 4.000 soldati Usa uccisi finora. Militari e civili muoiono come mosche. Ogni casa, ogni bancarella, ogni auto che passa può nascondere un nemico o il fantasma di un nemico, anche più pericoloso quando non sei sicuro di nulla. E perfino un povero ragazzino, ormai cadavere, può essere imbottito di plastico e diventare un “corpo bomba”. Il titolo rimanda alla cassetta del dolore, dove sono conservati, in attesa di rimpatrio, uniformi e medaglie, i “resti” dei soldati caduti.

Il cinema può cambiare i destini del mondo? Il regista Quentin Tarantino è convinto di sì, e affida al suo ultimo film “Bastardi senza gloria” (sabato 24 luglio), il sogno di raccontare un attentato a Hitler e la sua gang ad opera di un gruppo di partigiani ebrei. Creando il suo solito miscuglio di generi che mescola spaghetti western, pulp e melodramma, il cattivo ragazzo del cinema americano diverte e intrattiene per oltre due ore, esagerando da par suo con la violenza, La fine della Seconda Guerra Mondiale e del Terzo Reich secondo Quentin Tarantino è una favola nera sul nazismo e il potere del cinema. Una storia di lotta contro i nazisti che se ne infischia allegramente della Storia vera e della sua spesso paralizzante eredità. Un regista che mette Hitler e Goebbels in caricatura senza chiedersi un secondo se sia legittimo, tollerabile, politicamente corretto ridere del Terzo Reich e dei suoi orrori.

L’arte della guerra come metafora della potenza di un popolo, emblema delle strategie militari che i guerrieri credono infallibili. E’ il tema di “La Battaglia dei Tre regni” (domenica 25 luglio), epopea della mitica battaglia delle Scogliere Rosse (III secolo d.C.)  tra l’immenso esercito del primo ministro dell’imperatore, deciso a unificare la Cina e l’alleanza tra i due stati del sud, inferiori di numero ma più saldi e motivati. Una sorta di Iliade d’Oriente dove si mescolano epica, eroismo, amore e sacrificio. Ma la maggioranza non sempre vince se, per esempio, ha di fronte un ispirato poeta del tempo, l’astrologo Zhuge Liang, capace di «prendere in prestito il vento dell’est» e spingerlo verso l’immensa flotta nemica. Uomini micidiali in guerra, ma che ad essa ricorrono solo per preservare i piaceri della vita, dell’amore, dell’arte e della natura; uomini che parlano per mezzo della musica o che leggono il futuro nelle nuvole, che combattono ma che pensano solo alla fine della guerra. “Si vis pacem para bellum”, ancora una volta…

In conclusione, sette opere per dire un no deciso contro la barbarie della guerra. Per provare a contraddire quanto scrisse Platone: “Soltanto i morti hanno visto la fine della guerra”.

“Dove, si pensa spesso, dov’è adesso lo spettro della guerra, l’immagine dell’assassinio e il volto dei morti, il volto degli altri che a quest’ora vagano come animali braccati, un fagotto sotto il braccio, la disperazione nel cuore, e dove sono le città fumanti? non vedo niente…”
Max Frisch “Fogli dal tascapane”
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Per informazioni e dettagli: http://www.guerreepacefilmfest.it/

Il Guerre & Pace Filmfest è una iniziativa dell’Associazione Culturale

Di admin

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